XXV World Congress of Philosophy – Philosophy across boundaries
Osservata dal punto di vista da chi studia l’evoluzione della scena comunicativa e le dinamiche dell’ecosistema dell’informazione, la situazione attuale ci pone l’obbligo di evidenziare una considerazione e di ipotizzare una conseguenza. Una considerazione e una conseguenza che chiamano in causa anche la filosofia.
La considerazione d’obbligo riguarda la constatazione che il pulviscolo informativo in cui viviamo e che rappresenta per molti di noi il nutrimento primario che utilizziamo per formare la nostra conoscenza è costituito da una nebulosa informe di messaggi variamente configurati e trasmessi, da un insieme puntiforme di contenuti privi di tempo, identità, finalità e omogeneità. Una nebulosa che ha irrimediabilmente perduto i caratteri costitutivi dell’informazione tradizionale, così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi tre secoli. Un’informazione che era costruita secondo parametri produttivi e professionali sufficientemente definiti e adattati nel tempo e nello spazio. Un’informazione proposta secondo delle modalità di rappresentazione gerarchica prestabilite e universalmente intelligibili. Modalità che fornivano una certificazione, sia pure discutibile e contestabile ma comunque chiara, circa l’origine e la connotazione di quella che una volta chiamavamo notizia e che ha rappresentato per secoli la preghiera del mattino del cittadino europeo.
Il primo effetto di questo pulviscolo informativo è, per quasi tutti noi, la perdita del senso, l’impossibilità di mutuare o di costruire delle chiavi interpretative da porre a bussola del nostro agire quotidiano: dalle scelte più banali alle azioni più rilevanti e significative. Il mondo, globale o di prossimità, non è più leggibile in maniera agevole. Per questo, la scena comunicativa si sviluppa su parametri sempre più banalizzanti, sempre più rudimentali, nei quali l’argomentazione delle proprie ragioni viene soppiantata dalla semplice e rudimentale proclamazione della verità delle proprie idee.
L’opacità della realtà genera semplificazioni crescenti giocate sugli assi bene/male, salute/malattia, virtù/peccato, conveniente/dispendioso miseria/lusso. Questa tendenza viene ulteriormente esasperata dalla capacità di fuoco delle nuove fabbriche della verità. Fabbriche – a disposizione di committenti danarosi – capaci di costruire e affermare nuove realtà, nuove credenze, nuovi bisogni. Non siamo effettivamente in grado di comprendere quale è l’impatto che stanno avendo e che sempre di più avranno le modalità di industrializzazione delle tecniche di costruzione della realtà e di conseguenza i meccanismi di costruzione della verità, così come percepita dal comune sentire. Pensiamo solo per un attimo alla rilevanza che avranno le tecniche di costruzione dell’identità digitale delle persone e le possibilità di costruzione o di distruzione della reputazione degli individui nella dimensione digitale con l’avvento dell’IAG. Noi siamo ciò che le persone pensano di noi e siamo persuasi del fatto che siano le nostre azioni, il nostro comportamento a determinare l’immagine che il prossimo ha di noi stessi. Siamo davvero certi che sarà così anche in un futuro prossimo?
Non penso, poi, sia necessario richiamare il ruolo e l’importanza delle fabbriche delle fake news nel determinare scelte epocali come la Brexit o l’andamento delle elezioni nei più importanti e popolosi Paesi del mondo.
Proclamata questa estrema semplificazione, bisogna però aggiungere che un bisogno si farà sempre più strada: la ricerca di un senso del mondo. Un senso non più volto alla ricerca di nuove ideologie, di nuove cosmogonie o di nuovi sistemi filosofici, ma inteso come bisogno di assumere punti certi di ancoraggio per affrontare le scelte della vita quotidiana, per comprendere la valenza di scelte politiche e sociali, per orientare i comportamenti. Per essere cittadini consapevoli e non eterodiretti. Per non essere asserviti alle volontà non più del Grande Fratello, ma del Grande Suggeritore.
Per proseguire in questo ragionamento molto rudimentale e semplificato, oltre che necessariamente sintetico, sarebbe auspicabile che qualcuno, nell’epoca dei navigatori satellitari, riuscisse a creare un nuovo strumento: una bussola in grado di orientarci nel terreno della conoscenza e della consapevolezza. Una bussola che ci affranchi da un radicale e perpetuo scetticismo, da un complottismo sempre più diffuso e paralizzante. Una bussola che indichi non la verità, ma dei percorsi di verità. In un mondo nel quale il vero sempre più scaturisce non dalla conoscenza o dall’accertamento dei fatti, ma da ciò che pensiamo io, la mia cerchia e le mie piattaforme di riferimento. Occorre infatti che qualcuno o qualcosa ci restituisca l’idea che il vero non è un luogo, ma un cammino.
Possiamo dunque chiederci: la filosofia può aiutarci a identificare un percorso di verità in un mondo nel quale è lecito negare l’Olocausto (o, addirittura, rivendicarlo), in cui è possibile pensare che la terra sia piatta, che lo sbarco sulla luna non sia mai avvenuto? Si tratta di una richiesta, rivolta alla filosofia, troppo difficile? Ai limiti dell’impossibile? Sicuramente una richiesta necessaria in un mondo nel quale non sappiamo più esattamente come definire una notizia, nel quale il termine “news” non rappresenta più con precisione ciò che eravamo abituati a pensare fosse una notizia: ossia un evento accaduto nell’immediatezza e raccontato tempestivamente e per la prima volta. Se non si è sufficientemente addestrati, per noi residenti nella sfera del pulviscolo informativo, tutto si trasforma in notizia e, al tempo stesso, niente lo è più. L’oggi, ossia il tempo reale, in diretta, si mescola e si confonde con l’ieri e l’altro ieri; il qui si confonde con il laggiù, Indro Montanelli con il blog di Mario Rossi, il parere del presidente della Corte costituzionale con quanto si legge sul sito avvocatomariorossi.it, il parere del cardiologo con quanto suggerisce un conoscente attraverso una piattaforma di comunicazione interpersonale.
La nuova cittadinanza nell’universo digitale ha bisogno di trovare un accordo comune e condiviso su ciò che ha un carattere di verità o, quantomeno, di rispondenza a quanto realmente accaduto, separandolo e distinguendolo da invenzioni, menzogne e falsità. Nel mondo analogico, questa funzione era svolta, bene o male, dai cosiddetti mezzi di comunicazione. La stampa prima e i notiziari radio e televisivi, poi, costruivano a ritmi incessanti la materia prima per la comprensione del mondo. E lo facevano secondo pratiche professionali omogenee da parte di gruppi i cui membri si riconoscevano e si accreditavano a vicenda. Adesso non più.
Per quasi tre secoli il giornalismo anglosassone ha cercato di capire cos’era la verità, adesso bisogna ricominciare da capo comprendendo che la domanda non è più: qual è la verità? La nuova domanda è: quali sono i percorsi che mi possono condurre a una accettabile identificazione della realtà?
Quello della verità, peraltro, è un tema su cui ci si aggroviglia da quando sono cominciati a uscire i primi fogli periodici di informazione. Potremmo assumerlo come una tendenza, un’aspirazione piuttosto che come un luogo. Ad esempio, Samuel Buckley ne parlava come l’impegno a rispettare, così scriveva, “i concetti di attendibilità dell’informazione, verifica delle fonti, correttezza e imparzialità, puntualità, l’elaborazione di articoli con fatti ben separati dalle opinioni”. Samuel Buckley scriveva queste frasi in un editoriale pubblicato il 12 marzo. Ma non il 12 marzo del 2024, bensì il 12 marzo del 1702; la sostanza non pare dunque essere cambiata in questi 322 anni. Si è semmai arricchita, articolata, resa più complessa. Ma come misurare questi concetti e tradurli in pratica, in una pratica di verità? L’etica della comunicazione e la filosofia morale ci hanno provato, tentando di elaborare concetti e parametri che però si sono dimostrati non sufficienti; il dibattito in ambito giornalistico e politico ha tentato via via di mettere a fuoco concetti come imparzialità, neutralità e poi obiettività; quindi elaborando l’idea di fairness, equità. Concetti importanti affascinanti, ma ancora troppo generici. A cui si giunge per correzioni e per approssimazioni, non attraverso la definizione cristallina di un concetto.
Con il passare del tempo la questione si è progressivamente complicata. C’è chi ha ipotizzato che la verità possa essere un concetto autoreferenziale. Secondo alcuni, «Il giornalismo deve essere radicato nel dire la verità. Questo non significa un’aderenza a una qualche non negoziabile versione essenziale degli eventi, ma significa che il giornalista, nel riferire la propria versione dei fatti, dovrebbe essere in grado di affermare, con sincerità, che ritiene corretta la propria ricostruzione degli eventi».
Altri si sono spinti oltre, fino ad avvicinare e quasi identificare i concetti di verità e di non falsità: «L’accuratezza è l’atteggiamento di chi assume le necessarie misure per assicurare per quanto possibile che quanto affermato non è falso; sincerità significa assicurare che ciò che si dice corrisponde a quanto si pensa». Torna anche qui un riferimento alla “sincerità”. Cosa dire?
Un’altra studiosa ha proposto una singolare ma affascinante metafora sostenendo che dobbiamo pensare a una notizia nello stesso modo con cui pensiamo alle previsioni meteorologiche. Altri ci accompagnano verso un altro concetto limite: la verità come asserzione falsificabile, richiamando un po’ quel concetto di falsificabilità che Karl Popper ha definito per ben altri ambiti e ben altri scopi. «I bloggers considerano la verità un processo. Essi pubblicano voci e attendono che i lettori reagiscano, dato che ritengono che l’interattività del web provveda a correggerli».
In conclusione, dobbiamo davvero abbandonare l’idea di verità?
In verità, non immagino un contesto migliore di questo nel quale formulare una domanda del genere.
Carlo Bartoli
Roma 2 agosto 2024